San Raffaele: criticità, ipotesi e lezioni organizzative
Nei giorni scorsi l’Ospedale San Raffaele è stato al centro dell’attenzione mediatica per alcune criticità emerse nella gestione dell’attività assistenziale. Non entro nel merito dei singoli episodi né avanzo giudizi definitivi: non dispongo di informazioni complete e, soprattutto, credo che in sanità la prudenza sia un dovere etico prima ancora che professionale.
Questo contributo vuole limitarsi a formulare ipotesi di sistema, partendo da ciò che esperienze diffuse nel mondo sanitario rendono verosimile, senza attribuire responsabilità personali o istituzionali.
Oltre l’evento: quando emergono i nodi organizzativi
Quando si verificano criticità assistenziali, raramente la causa è riconducibile a un singolo errore o a una sola figura professionale. Più spesso si tratta di una convergenza di fattori:
assetti organizzativi fragili o sotto stress;
carichi di lavoro non sostenibili;
comunicazione imperfetta tra livelli decisionali e operativi;
sottovalutazione di attività considerate “di routine”, ma in realtà ad alta complessità.
In questi contesti, l’errore non nasce nel momento finale dell’atto assistenziale, ma molto prima: nella progettazione dei turni, nella gestione delle risorse, nelle scelte di allocazione del personale.
Il ruolo infermieristico: centrale ma spesso invisibile
L’assistenza infermieristica svolge una funzione cruciale nel garantire continuità, sicurezza e appropriatezza delle cure. Attività come la gestione della terapia, il monitoraggio clinico, la conoscenza fine dei pazienti e delle dinamiche di reparto sono spesso poco raccontate dai media, ma rappresentano snodi decisivi del processo di cura.
È qui che emergono alcune possibili fragilità sistemiche:
la convinzione, talvolta implicita, che gli infermieri siano facilmente intercambiabili;
l’idea che la conoscenza del reparto e dei pazienti sia un fattore secondario;
l’uso della mobilità del personale come strumento di risparmio più che come scelta clinico-organizzativa ponderata.
In realtà, ogni reparto ha una propria complessità: protocolli non scritti, equilibri tra professionisti, specificità cliniche che richiedono tempo per essere interiorizzate. Inserire personale senza un adeguato affiancamento significa aumentare il rischio, non ridurlo.
Coordinamento e leadership clinica
Un altro punto critico, che in molti contesti sanitari emerge ciclicamente, riguarda il coordinamento tra vertici organizzativi, dirigenza medica e professioni infermieristiche.
Il buon funzionamento di una struttura complessa non dipende solo dall’eccellenza clinica, ma dalla qualità delle interazioni:
chiarezza delle responsabilità;
condivisione delle informazioni;
ascolto dei segnali deboli che arrivano dai reparti;
capacità di intervenire prima che le criticità diventino eventi.
Quando questi canali si indeboliscono, l’organizzazione diventa reattiva anziché preventiva.
Ipotesi, non verdetti
Ribadisco: queste non sono conclusioni sul caso specifico del San Raffaele, ma ipotesi plausibili alla luce di dinamiche note a chi lavora o ha lavorato in sanità. Attribuire colpe senza una conoscenza approfondita dei fatti sarebbe scorretto e controproducente.
Più utile, invece, è interrogarsi su ciò che ogni episodio critico può insegnare:
la sicurezza delle cure è un prodotto collettivo;
il risparmio organizzativo ha sempre un costo clinico potenziale;
la competenza non è solo individuale, ma anche contestuale.
Conclusione
Ogni volta che un sistema sanitario mostra una crepa, la tentazione è cercare un responsabile immediato. Ma la vera responsabilità, in sanità, è quasi sempre strutturale.
Rafforzare l’organizzazione, riconoscere il valore della conoscenza di reparto, investire nel coordinamento e nel ruolo infermieristico non è una concessione corporativa: è una scelta di sicurezza per i pazienti e di dignità per chi lavora.
Prima dei giudizi, servono analisi. Prima delle polemiche, servono domande giuste.
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