Friday, March 30, 2007

L'infermiere di famiglia

I vertici dell'Ipasvi hanno lanciato l'idea di introdurre in Italia l'infermiere di famiglia. La notizia è riportata dal quotidiano la Repubblica, sul supplemento Salute.
Oggi, è vero, l'assistenza territoriale è negletta, manca di sufficienti risorse e come dice Annalisa Silvestro, presidentessa dell'IPASVI, è giunto il momento per "lavorare alla creazione di una struttura di assistenza infermieristica sul territorio. In sostanza il paziente che torna a casa dopo una degenza deve poter contare su personale infermieristico che possa assisterlo anche a domicilio".
Tuttavia, si sa purtroppo come in Italia le buone idee vengano talvolta distorte cammin facendo. Temo che all'infermiere toccheranno tutte quelle incombenze più ingrate, di cui il medico di famiglia non vuole più farsi carico.

Monday, March 26, 2007

Braccia strappate all'agricoltura

A volte ho l'impressione che l'organizzazione dell'ospedale italiano combaci con quella del lavoro nei campi di cento, duecento anni fa. C'è il primario che è un prolungamento del vecchio padrone, libero di manifestare tutte le proprie manie e a cui tutti devono dare sempre ragione, c'è il caporeparto che è il fattore arcigno e autoritario che ti tallona passo passo e che non brilla quasi mai per comprensione ed empatia e infine c'è l'infemiere, che la legge dichiara responsabile dell'assistenza, ma che in realtà conta come l'antico bracciante, un semplice esecutore, un due di coppe, la remota rotella dell'ingranaggio cui attribuire il lavoro oneroso e le colpe per tutto quello che non va.
Fortunatamente non dappertutto è così, ma gran parte della mia esperienza professionale mi ha portato a queste amareggiate conclusioni.
Era ingiusto il trattamento riservato nei secoli scorsi al bracciante, che spesso era analfabeta, ma non per questo privo di dignità. Oggi, invece, l'infermiere è laureato anche se sarà ormai da trent'anni che moltissimi infermieri si affacciano al lavoro ospedaliero, pieni di buone intenzioni e aspettative, forniti di diplomi di scuola superiore, frequenze universitarie e, al di là dei titoli, preparazione culturale e intelligenza di tutto rispetto. Eppure il modo di lavorare è rimasto quello di secoli fa: strutture rigidamente gerarchiche, autoritarie, obsolete, alienate ed alienanti.
Ci sono molte ricerche scientifiche, puntualmente ignorate, che confermano l'inadeguatezza della attuale organizzazione degli ospedali. Si badi: una cattiva organizzazione non produce danni soltanto alle persone che la subiscono, ma ha ripercussioni negative anche in termini economici. Sono costi in più, tasse in più da pagare, soldi in più che devono sborsare i cittadini.
Gli infermieri scarseggiano, ma nulla cambia in Italia, ci sono troppi privilegi e prebende da difendere, ci sono lobby potenti che arrivano fino al parlamento e che frenano qualsiasi riforma. Non c'è traccia del passaggio della modernità in molte, troppe corsie italiane. Secoli di pensiero manageriale e innovativo sono passati invano. Alle scuole di economia insegnano delle cose che poi, nella pratica quotidiana, sono disattese. Evidentemente leggere, studiare e aggiornarsi è faticoso e chi comanda ha di meglio da fare.
A volte immagino che chi dirige tragga gratificazione da tutto ciò, una sensazione di onnipotenza, una piacevole sensazione di superiorità. Potere è meglio che fottere, dice un vecchio proverbio (siciliano?). Non lo so, mi riesce difficile immedesimarmi, non appartengo a razza padrona alcuna. L'autorealizzazione di una persona ritengo passi attraverso lo sviluppo e l'esercizio di altre qualità. Opprimere gli altri non mi ha mai interessato, i machiavellismi mi annoiano.
Ma non chiediamoci se nessuno vuol più fare l'infermiere e se quelli che ci sono appena possono scappano, si imboscano, cambiano lavoro.

Saturday, March 24, 2007

La rivolta degli infermieri

... ed ecco il secondo articolo di un'inchiesta giornalistica che ha tutta l'aria di essere seria e di continuare. Il buon giornalismo, d'altronde, è questo: ci mostra la realtà che, talvolta nella sua crudezza, è ben diversa dagli stereotipi radicati nella mente della gente comune, di tutti noi che magari ci formiamo i nostri costrutti personali su determinati argomenti, partendo da informazioni di seconda mano.
Il quadro che si profila credo sia emblematico non soltanto di Torino, bensì della realtà di molti ospedali italiani.

La rivolta degli infermieri di Salizzoni
Strumentisti sul piede di guerra al centro trapianti: «24 le ore lavorate nell'arco di due giorni consecutivi»
RAPHAEL ZANOTTI
TORINO
Era nell’aria. Dopo il Regina Margherita il primo ospedale da cui sarebbe partito un esposto sulle condizioni di lavoro degli infermieri sarebbe stato quello delle Molinette. Quello che forse non ci si aspettava è che i primi a ribellarsi sarebbero stati gli infermieri di un reparto d’élite come il Centro trapianti di fegato del professor Mauro Salizzoni, uno dei fiori all’occhiello del nosocomio torinese. Il Nursing Up, il sindacato che ha fatto partire il primo esposto, sta raccogliendo il materiale per il secondo e annuncia: «Seguiranno quelli di Cardiorianimazione, due di Medicina e un’altra sala operatoria: in tutto cinque esposti».

Incontriamo due dei quattro strumentisti del reparto del professore nei locali del sindacato. «Vogliamo premettere una cosa - dicono subito -. Lavorare con il professor Salizzoni è un onore, un’esperienza di arricchimento personale unica. Ma proprio per questo abbiamo deciso di esporci: questo lavoro ci piace, vogliamo dare il massimo per i nostri pazienti e la loro sicurezza ». Per comprendere cosa significa sicurezza è necessario capire cosa vuol dire lavorare in un centro trapianti come quello del professor Salizzoni: negli ultimi 22 giorni sono stati eseguiti 20 trapianti. «Quando ho iniziato - ricorda Mario (il nome è di fantasia) - avevamo 15-16 reperibilità al mese. Ben di più delle 6 previste dal contratto, ma comunque era una situazione che si poteva ancora sostenere. Oggi siamo a una media di 22. E ad aprile saremo a 24 considerando che un’altra strumentista andrà in pensione e che per formare una nuova figura di questo tipo ci vogliono dagli 8 mesi all’anno ». Essere strumentista significa avere sempre il cellulare acceso.

L’emergenza si chiama «fegato». Il donatore può essere ovunque. Entro un’ora bisogna avere tutto pronto, si sale in elicottero, si raggiunge il centro espianti, si recupera l’organo, si ritorna indietro e inizia l’operazione. Un donatore «dona» a qualunque ora del giorno o della notte. «Capita che si parta alle 20 e si rientri alle 3, le 4 del mattino - racconta Federico (anche questo nome di fantasia) -. In teoria il giorno dopo sarebbe di recupero ore. Spesso succede che alle 15 sei di nuovo di reperibilità per le urgenze. Due week end fa ho lavorato 24 ore in due giorni: stremante». Lavorare a questi ritmi è pericoloso, fa notare il Nursing Up. «Personalmente mi è capitato più volte di pungermi con un ago - dice Mario -. Oltre al timore di esserti infettato, devi constatare come, se fossi stato riposato, non ti sarebbe successo». La vita privata non esiste. «Ho una ragazza che fa l’infermiera - racconta Mario -. Se tutto va bene riusciamo a far coincidere i nostri turni in modo da avere un week end al mese per vederci». Le ore di straordinario non si contano. Si viaggia su una media di 40 al mese, quando il contratto ne prevede 180 all’anno con una possibilità, per il 5% del personale, di salire a 250. Ovviamente si sfora.

«C’è anche un altro problema che ci siamo posti in queste settimane - dice Mario -. Se succede qualcosa di grave, è ovvio che la magistratura deve accertare le responsabilità. Non vorremmo trovarci di fronte a un magistrato e doverci giustificare dicendo: “Lavoravo da troppe ore”. Una risposta inutile per i familiari. E altrettanto per il magistrato che non potrebbe che replicare: “Il vostro contratto ne prevede meno”. Avrebbe ragione». La sala operatoria, si sa, è luogo in cui le urgenze regolano la vita di tutti. Ma alle Molinette anche gli infermieri in corsia fanno fatica. Carla lavora in Medicina generale. «A febbraio ho saltato due volte il riposo - ricorda -. Nel nostro reparto c’erano sette persone in mutua. Eravamo in due per una trentina di pazienti, la metà da sollevare e lavare. Comincia a diventare impossibile: pago 520 euro al mese un asilo privato perché è l’unico che mi tiene i figli fino alle 19. In più, quando c’è un’emergenza, pago anche una baby sitter. Alla fine del mese se ne vanno 700 euro solo perché qualcuno guardi i miei figli e ne guadagno 1300. Praticamente spendo più della metà del mio stipendio solo per poter lavorare».

In Neurologia, altra infermiera, altra storia. Eppure così simile. Laura lavora da 14 anni. I continui cambi di orario, i turni e i riposi saltati hanno avuto, come effetto, lo sballamento del suo ciclo sonno- veglia: «Sono costretta da un anno a seguire una terapia di agopuntura per l’insonnia, questo non è normale».

Infermieri schiavi dell'ospedale

Riporto due articoli significativi sulla condizione degli infermieri negli ospedali italiani, articoli che dovrebbe far riflettere chi ancora pensa che lavorare nel pubblico significhi spassarsela. Opinione che sembra largamente condivisa anche nelle stanze del potere. La fonte è il sito del quotidiano di Torino La Stampa. Ecco il primo articolo...

Infermieri "schiavi dell'ospedale"
E' di 16 ore al giorno il doppio turno previsto dal Regina Margherita
RAPHAEL ZANOTTI
TORINO
Avvertenza: i nomi sono rigorosamente di fantasia, le storie no. Nude e crude, così come ce le hanno raccontate nei bagni, dietro l’angolo di un corridoio, nascosti da un anfratto, gli infermieri dell’ospedale Regina Margherita. Perché sembra incredibile, eppure anche qui, tra alberi, orsetti e farfalle disegnati sui muri dell’ospedale infantile, c’è chi ha paura a parlare. L’esposto sulle condizioni di lavoro partito dal piccolo nosocomio ha innescato un effetto domino. Presto anche gli infermieri delle Molinette presenteranno un esposto simile alla direzione provinciale del Lavoro. E questo, è naturale, fa scattare un meccanismo: timore di rappresaglie. Michela la incontriamo vicino a Rianimazione. «Non qui - dice - e si sposta dietro un angolo - non voglio che mi vedano». Racconta del suo reparto. «La reperibilità ormai viene utilizzata per coprire i buchi. Solo qualche giorno fa ho svolto il mio normale turno dalle 15 alle 23, poi ho fatto la notte in reperibilità in ospedale, il mattino ho dormito e il pomeriggio ero di nuovo qui. Purtroppo non è un evento unico. Il problema è che così si rischia: noi e, quel che è peggio, il paziente». Michela si ferma. L’ascensore è arrivato al piano. Passano due persone e ricomincia: «Il mio lavoro mi piace, non lascerei mai un paziente in difficoltà. Però, così, non ho una vita privata. Fidanzati? Figli? E chi ha il tempo? Bisognerebbe fare un’indagine solo per vedere quanti divorzi sono dovuti a un nome sui turni della settimana».

Scendendo le scale s’incontrano operai indaffarati. «Sono qui da stamattina - avverte Lorenzo, un infermiere iscritto al Nursing Up, il sindacato di categoria che ha presentato la lettera esposto -. Sarà un caso, ma da stamattina si lavora nelle sale operatorie, sono comparsi i presidi medici per la sicurezza prima introvabili, si rattoppa, si ripara... e agli infermieri è vietato rilasciare interviste alla stampa». La sicurezza è un altro di quei temi di cui si parla sottovoce, nei corridoi. «Le porte di radiologia non sono schermate col piombo - dice Lorenzo -. Inoltre chi lavora nelle sale operatorie non percepisce l’indennità per le radiazioni. È strano, ma gli infermieri della sala gessi che vengono in radiologia una volta ogni tanto, l’hanno. Noi no. Nessuno capisce perché». Il Regina Margherita ha quattro sale operatorie. Gli infermieri sono pochi, e così la reperibilità diventa la norma. «In teoria il contratto prevede sei reperibilità al mese, ma non è mai così» spiega Claudio Delli Carri del Nursing Up. «La mia media è di 13 al mese - racconta subito Lorenzo -, ma chi lavora nella sala di cardiochirurgia, più specialistica, è arrivato anche a 28». La reperibilità è la morte di ogni progetto di vita oltre il lavoro, al di là della corsia. Essere reperibili significa non allontanarsi mai oltre una distanza di 20 chilometri dall’ospedale. Significa vivere costantemente con una parte della testa al lavoro. Dormire con un occhio solo.

Giulia lavora così. La contattiamo a fine turno grazie al numero di cellulare che ci lascia per evitare di farsi vedere mentre parliamo con lei. «Mi è capitato di fare più volte il doppio turno, oltre 16 ore di lavoro. Sono separata e con figli, per fortuna c’è mia madre che mi dà una mano, altrimenti non saprei proprio come fare. Purtroppo, a volte, si ha l’impressione che facciano leva sul buonsenso, sul fatto che se hai scelto di fare questo mestiere, un paziente non lo lascerai mai senza essere sicuro». Anche al pronto soccorso, le cose non vanno meglio. Katia racconta delle «colleghe in mutua pur di riposarsi» e del «codice bianco», dodici ore di filato di domenica dopo aver già svolto il numero di ore regolari. «Sai che questo è straordinario?» le chiede Delli Carri. «No» è la risposta. «Ecco - dice il sindacalista - anche così nascono queste storture».

Carenza di infermieri? Balle. Ci sono, ma sono imboscati

Ormai il problema della carenza di infermieri è diventato simile alla peste manzoniana: tutti alla ricerca dei possibili "untori". Novello don Ferrante, per lo stimabilissimo prof Mauro Salizzoni, responsabile del Centro Trapianti all'ospedale Molinette di Torino, per altri versi professatore di idee generali politically correct, la crisi degli infermieri non esiste. La verità è che gli infermieri ci sono, soltanto che il 50% di loro è "imboscato", protetto dal sindacato.
E' quanto afferma in un intervista apparsa su La Stampa Web, nella rubrica-blog Stetoscopio.
Personalmente, presumo sia vero che esistono nella sanità degli "imboscati", come d'altra parte in qualsiasi settore del Pubblico Impiego. Non ne ho, s'intende, le prove. Imboscati ce ne sono persino nelle aziende private e non solo in Italia.
Sono perfettamente d'accordo che sia un fenomeno da combattere e non solo a parole. Sono d'accordo anche quando l'illustre medico dice che gli incentivi distribuiti a pioggia a chi si fa un mazzo tanto e agli assenteisti sono ingiusti.
Le idee del professor Salizzoni, di cui, sia chiaro, ammiro il valore professionale, non mi sembrano tuttavia cogliere il nocciolo della questione. Storicamente la classe medica, in virtù dei privilegi ormai secolari di cui gode, è una delle categorie professionali più conservatrici del Paese. Tende a vedere i problemi secondo una prospettiva deformata dalla tradizione e, a mio avviso, superata. Le idee del professor Salizzoni sulla questione infermieristica non mi sembrano smentire questa osservazione.
Non dimentichiamo che la la sanità, così com'è in Italia, hanno contribuito a crearla principalmente i politici e i medici, che del sistema sono le grandi star. A loro, dunque, gli onori, ma anche gli oneri.
La colpa dei ritardi organizzativi, dei ricoveri impropri, delle liste di attesa che si accorciano a seconda del reddito dell'utente, dell'interessata dipendenza dalla grande industria farmaceutica e dai suoi maneggi, non è soltanto degli amministratori.
Gli scandali della sanità che si sono succeduti a ritmo incalzante negli ultimi decenni , - e quelli emersi hanno tutta l'aria di essere soltanto la punta dell'iceberg -, hanno purtroppo coinvolto moltissimi medici e soltanto sfiorato gli infermieri, il cui potere all'interno dell'organizzazione sanitaria è, diciamocelo con franchezza, prossimo allo zero.
Sono poi in gran parte i medici che hanno contribuito a creare (o a tollerare) quell'ambiente lavorativo demotivante, epperò funzionale al loro prestigio professionale e alle loro esigenze (loro, non del malato!), che è ancora, in troppi contesti, l'ospedale italiano. In questa direzione vanno ricercati i motivi della grave carenza di infermieri nel nostro Paese.
La crisi degli infermieri si combatte perciò restituendo loro dignità, rispetto, autonomia professionale, riconoscimento sociale ed economico. Limitarsi a recuperare un manipolo di "imboscati" non porta, credo, molto lontano.

Saturday, March 17, 2007

Il ministro istituisce una Commissione nazionale sulle scienze infermieristiche

Il ministro Livia Turco, intervenendo alla prima Conferenza nazionale sulle politiche per la professione infermieristica, organizzata dalla Federazione Ipasvi, ha annunciato l'istituzione di una Commissione nazionale sulle scienze infermieristiche. "Fino dalla mia prima esperienza nelle politiche sociali ho compreso che quella dell’infermiere è una figura strategica e fondamentale”, ha detto il ministro e ha aggiunto che occorre un salto culturale che metta fine all'idea dell'infermiere che "affianca". L'infermiere invece, secondo Livia Turco,"organizza e gestisce".
La notizia è riportata da Il Bisturi, in data 16 marzo.
Speriamo non si tratti delle solite belle parole, delle promesse che poi si perdono per strada. Di certo la sanità italiana, nell'interesse degli infermieri e dei cittadini, al di là della ormai improcrastinabile valorizzazione della figura infermieristica, abbisogna di una riorganizzazione profonda, che metta in risalto la trasparenza, il merito, la responsabilità e la buona gestione. Dalla piena attuazione di tali valori siamo purtroppo ancora molto lontani, anche nelle Regioni in apparenza più avanzate.