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Friday, April 18, 2025

Joseph Conrad e l'infermieristica

 Ci sono mestieri che si svolgono sulla terraferma e altri che si affrontano in mare aperto. Ma talvolta, pur restando tra le mura di un ospedale, ci si ritrova in mezzo a una burrasca. Leggendo Joseph Conrad, scrittore anglopolacco e capitano di lungo corso, si coglie con chiarezza quanto la vita del marinaio, fatta di attese, improvvisi capovolgimenti e dure prove morali, possa assomigliare alla professione infermieristica.

Conrad ha raccontato il mare come simbolo dell’imprevedibilità della vita. Il suo Tifone ne è un esempio emblematico: una nave solca acque calme, ma all’improvviso il cielo si chiude e l’oceano si scatena. Così è anche nel nostro lavoro: un turno inizia tranquillo, il reparto sembra gestibile, e poi – senza preavviso – la situazione muta. Un codice si aggrava, una complicazione irrompe, un paziente precipita. L’emergenza è come una burrasca improvvisa: richiede lucidità, prontezza, sangue freddo.

È proprio in questi momenti che si misura una parte importante del valore dell’infermiere. Non sempre chi interviene con efficacia è il più alto in grado, o il più titolato. Spesso, come nei romanzi di Conrad, sono la prontezza, l’intuito, l’esperienza vissuta a bordo – cioè sul campo – a fare la differenza. E a volte non è chi sta più in alto nella gerarchia a condurre in salvo la nave, o il paziente. 

L'errore è sempre in agguato. Conrad lo racconta bene in Lord Jim: un errore, un attimo di esitazione, possono segnare una vita. Così è in corsia. Sappiamo che il nostro margine d’errore è sottile. 

Tuttavia, è bene ricordarlo: il valore dell’infermiere non si misura solo nella gestione dell’emergenza. Anzi, è nella routine che si rivela il carattere profondo di questo mestiere. È lì, nel quotidiano, nella cura costante, nei gesti ripetuti, nell’ascolto paziente, nel prevedere e prevenire complicazioni che si costruisce fiducia e si accompagna davvero la persona malata. La bonaccia può durare ore, giorni, ma proprio in quei momenti si vede chi sa restare vigile, presente, umano.

Primo Levi, nella Chiave a stella, raccontava la bellezza del lavoro ben fatto, dell’ingegno applicato alle difficoltà pratiche. Parlava del lavoro dell’uomo che usa le mani e la testa per affrontare problemi concreti. Non si riferiva al mare, ma a quell’universo di sfide che ogni mestiere autentico porta con sé. E che costituiscono la bellezza del lavoro. Anche del nostro. Ed è proprio questa continua necessità di affrontare l’imprevedibilità della malattia, ma anche di presidiare la normalità, che rende il lavoro infermieristico così complesso e, a suo modo, nobile.

Nessuno salva una nave da solo. Nessuno salva un paziente da solo. Serve affiatamento, coordinazione, rispetto dei ruoli. Serve fidarsi del collega, saper ascoltare, dare una mano quando l’altro è in affanno. È il lavoro di squadra – spesso silenzioso e poco celebrato – che permette di attraversare indenni la tempesta. Così come la buona navigazione nasce da un equipaggio che conosce la propria rotta e rema insieme.

Le nubi possono addensarsi in fretta. E quando arriva il tifone, solo chi ha nervi saldi, senso del dovere e spirito di solidarietà può affrontarlo senza cedere. I marinai lo sanno. Gli infermieri pure. E anche Joseph Conrad lo sapeva.